Quando prendere una scorciatoia ti cambia la vita

Conoscere la realtà può essere come uscire da una Escape Room?

È vero il detto non tutto è come sembra?

Può la diversità contribuire?

Intro

Oggi, mi piacerebbe discutere un argomento per me particolarmente complesso. Direi intricato. Un po’ come un enigma. L’argomento che vorrei affrontare può ricordare i meccanismi che regolano le escape room. Dove, però, la room da cui scappare è costituita dalla nostra personale percezione della realtà.

Lo scopo di una Escape Room è trovare la chiave per uscire da una stanza, una casa, un giardino, attraverso la risoluzione di misteriosi indovinelli, la scoperta di oggetti che possono avere usi diversi dagli ordinari. Di solito, si vince quando si è capaci di guardare la realtà da punti di vista differenti.

E così sembra che possa funzionare anche la nostra capacità di evitare gli errori di giudizio che contraddistinguono la nostra capacità di percepire la realtà che ci circonda e di prendere così decisioni fondate su fatti e non su impressioni spesso errate.

Vi domanderete perché sono interessato a questo argomento. La risposta è semplice. Credo che tutto ciò che ci accade sia legato a come percepiamo la realtà. Non possiamo evitare che i bias (costrutti fondati, al di fuori del giudizio critico, su percezioni errate o deformate, pregiudizi e ideologie), scattino in assoluto, perché fanno parte del funzionamento del cervello. Ma possiamo trasformarli in nostri alleati.

Possiamo, infatti, comprendere come si attivano, comprendere dove possano essere d’aiuto e dove, invece, vadano combattuti, perché riducono la nostra capacità di vedere le cose che abbiamo intorno e che ci condizionano.

Cerca dove c’è luce

Mentre scrivevo l’introduzione, mi è venuta in mente una storia che andava di moda anni fa (a volte la rievoco ancora 🙂 ). La narrazione è molto semplice. Una persona è intenta a cercare le chiavi della propria macchina sotto la luce di un lampione e un avventore le si avvicina per offrire supporto.

Colui che cerca di dare una mano chiede dove sia avvenuto lo smarrimento in modo da circoscrivere meglio la ricerca. La persona accovacciata risponde indicando una zona distante qualche metro dal punto in cui si trova.

Ovviamente, l’avventore è stupito e chiede come mai stia cercando in quel punto sotto il lampione e non nel punto corretto. La risposta è interessante: “Qui c’è luce, là non vedo niente è buio”.

Sembra una provocazione. Anzi la storia di per sé lo è :). Ma se ci pensiamo bene, spesso nella vita cerchiamo le cose dove non stanno perché c’è una luce (la percezione di conoscere qualcosa) che ci guida.

Magari adesso credi di non poter cadere in questo meccanismo così assurdo e che ti fa sorridere. Ti propongo di curiosare dentro di te per capire meglio, perché nel mio caso a volte succede. Cerco per davvero dove vedo e non dove serve. Anche nello scrivere questo testo ho cercato di rompere questa abitudine 🙂 .

Ma perché ci comportiamo così?

Credo si tratti di un problema di affaticamento. Serve energia per rompere le nostre convinzioni, andando oltre l’apparenza di ciò che pensiamo di percepire. In più, spesso la fase in cui si rimane con tanti dubbi è altamente frustrante. E la frustrazione consuma anch’essa energia.

Da dove è nato il mio interesse

Giustamente, vi domanderete come mai mi è venuto in mente di scrivere oggi su questo argomento. Tutto è nato leggendo un articolo di Katherine Coffman e Francesca Gino, l’autrice di “Talento Ribelle”, scienziata comportamentale e professore di Business Administration alla Business School di Harvard:

https://hbr.org/2021/09/unconscious-bias-training-that-works#

(la formazione sulla gestione dei pregiudizi inconsci che funzione).

Il focus di questo articolo è nella frase che potete trovare sotto il titolo:

Aumentare la consapevolezza non è sufficiente. Insegna alle persone a gestire i loro pregiudizi, a cambiare il loro comportamento e a monitorare i loro progressi.

Nel leggere il loro pezzo, sono stati toccati moltissimi bias ritrovabili nella vita di tutti i giorni: pari opportunità legate alle differenze di genere, alla razza e al colore della pelle. Anche se siamo nel 2021, e se ne parla da tempo, questi bias affliggono ancora molte organizzazioni.

Nel libro, c’è un esempio che mi ha colpito. Non molto tempo fa, 2018, a Philadelphia, in uno store di Starbucks, sono entrati due uomini afro americani e si sono seduti al tavolo. Si sono messi a discutere senza preoccuparsi di ordinare.

Il responsabile dello store, vedendo la scena, ha iniziato a preoccuparsi della loro presenza. Come mai non avevano ancora ordinato? Stavano occupando un tavolo senza diritto.

Non voleva seccature all’interno del suo negozio, per cui si è avvicinato per chiedere un’ordinazione, altrimenti avrebbero dovuto lasciare libero il tavolo.

I due uomini afroamericani si sono rifiutati di ordinare dicendo che stavano aspettando una terza persona per discutere di affari. Il manager percependo la risposta come una scusa ha intimato loro di andarsene dal locale altrimenti avrebbe chiamato la polizia.

I due uomini (che poi si scoprì fossero realmente in procinto di fare una riunione di lavoro) sono stati dopo poco arrestati per essersi rifiutati di uscire.

Sarebbe successa la stessa cosa se i due protagonisti fossero stati di razza bianca? Non possiamo saperlo, ovviamente. Ma alla luce delle statistiche americane, probabilmente no.

Anche Starbucks si è resa conto del problema e ha deciso di affrontarlo. Dopo aver creato una regola chiara e condivisa che permettesse a tutti di entrare e di consumare secondo i propri tempi in modo da evitare che un fatto simile potesse ripetersi, ha attivato percorsi sulla gestione dei bias per tutti i dipendenti.

Dai dirigenti agli operativi, tutti avrebbero dovuto imparare a gestire i propri bias in modo da evitare future discriminazioni.

Ma cosa ci deve essere dentro un percorso come questo? Quali azioni sono consigliabili? Cosa chiedere ai dipendenti di imparare? In sostanza esiste un modo per gestire i propri bias?

Nell’articolo, vengono descritte alcune idee venute fuori dall’analisi di aziende come Starbucks. Sono piccoli insight molto semplici da applicare. Magari troppo semplici e per questo sottovalutati. Proviamo a vederli insieme.

Aumentare la consapevolezza non è sufficiente

Ormai è lapalissiano (talmente evidente da essere scontato), investire esclusivamente sulla consapevolezza non paga, perché esiste un effetto collaterale. Le persone usano la consapevolezza come una scusa per non lottare. “È un meccanismo naturale, per cui perché agire per cambiarlo?” sembra dire la testa di alcune delle persone esposte ai corsi che spiegano il funzionamento dei bias.

Quindi, utile essere consapevoli ma purtroppo non basta.

Una formazione efficace sugli Unconscious Bias passa per la consapevolezza, ma deve andare oltre. Devono essere aggiunte azioni concrete che possono avere degli effetti tangibili. Bisogna passare dalla consapevolezza che il cambiamento è possibile alla visione dei vantaggi del cambiamento in atto.

Ora, vediamo 5 azioni che possiamo mettere in campo in azienda, ma non solo per rendere il mondo degli unconscious bias meno potente.

1° azione possibile: feedback tra opposti

Innanzitutto è utile trovare degli sparring partner del feedback. Ossia, persone capaci di esprimere idee diverse dalle nostre a cui chiedere opinioni su situazioni che stiamo affrontando. Quest’azione  può davvero allargarci i punti di vista e rompere credenze che possono condizionare il nostro modo di vedere la realtà.

Purtroppo, chiedere a chi la pensa come noi è come guardarsi allo specchio. Per cui non funziona 🙂 . Allo stesso tempo, chiedere a persone che la pensano diversamente da noi e che non sappiano dialogare con noi può non essere comunque né facile né utile (mi ricordo mio papà quando dibatteva di politica con persone che la pensavano in modo estremamente diverso … Spesso finivano per litigare alzando la voce).

Probabilmente, per evitare di seguire le orme di mio papà, serve dare anche un po’ di metodo a questi scambi, altrimenti il dialogo non riesce a fiorire. Su questo punto, qualche anno fa, ho fatto un tentativo in aula che mi ha davvero stupito.

Adottare un’opinione opposta

Durante un corso di formazione sul tema della comunicazione, ho fatto sperimentare a dei manager giovani la possibilità di dialogare con metodo su un tema complesso. L’aula in quell’occasione scelse di dialogare su questa tematica: “è giusto che coppie omosessuali adottino?”.

L’attività era strutturata in questo modo: un gruppo avrebbe preso le parti a favore e l’altro gruppo le parti contro. Gli scambi di comunicazione si sarebbero svolti all’americana (1 minuto a fazione).

Il tema scelto attivava opinioni molto forti e molto immediate (ecco i nostri cari bias), così per favorire uno scambio equo ho creato i due team inserendo in entrambi persone a favore e contro (generando così diversità di opinioni).

Voglio tranquillizzarvi non sono volate né parolacce né offese. Anzi. Vi condivido tre cose che mi hanno stupito davvero tanto.

Durante la fase di preparazione, molte opinioni che sembravano immodificabili hanno perso la loro forza centripeta e hanno iniziato a rendere possibile un dialogo aperto. Ognuno cercava di comprendere davvero il punto di vista dell’altro cercando di rimanere senza giudizio.

Durante la fase di dialogo all’americana, invece, mi stupì la fluidità degli scambi, la facilità di comprensione reciproca (spesso facevano domande per comprendere meglio la posizione dell’altra parte invece che ribattere subito) e ancor più spesso cercavano di integrare i punti di vista in una visione del tutto nuova.

Infine, durante la fase finale mi sono accorto che le persone che avevano maggiore capacità di dialogare e di influenzare il processo di comunicazione erano proprio quelle che si sono trovate a difendere l’opinione opposta alla propria.

Immaginate se ci insegnassero fin da piccoli a danzare con le opinioni altrui, quanto le nostre relazioni personali potrebbero beneficiarne e quanto saremmo più efficaci.

2° azione: Comporre team “diversi”

Un’altra idea che funziona è quella di organizzare team che possano essere composti in modo molto eterogeno: donne e uomini, bianchi e neri, provenienti da zone diverse, da reparti diversi. La diversità di per sé è un antidoto molto efficace contro i bias.

Condivido pienamente questa scelta, perché credo nel valore della diversità. Credo, allo stesso tempo, che il solo atto di mettere persone intorno a un tavolo non sia sufficiente, perché culturalmente non siamo abituati a parlare in modo aperto e diretto quando siamo di fronte a persone eterogenee.

Per questa ragione, credo che si debba intervenire anche a livello di metodo di lavoro e di scambio. Spesso per esempio utilizzo il modello di Kolb per parlare di diversità (come nel caso del corso di comunicazione raccontato nei primi paragrafi), e il modello Vital Signs di Six Seconds per discutere come far funzionare i gruppi che vogliono organizzarsi per dare valore al contributo di tutti.

Ovviamente, l’articolo parla a ragion veduta di casistiche aziendali, ma secondo me le stesse riflessioni possono riguardare anche la vita quotidiana, al di fuori del lavoro. Il fattore diversità nelle amicizie e nel relazioni personali porta valore ed energie.

3° azione: Condividere “storytelling” su cui riflettere

Molto spesso le persone negano l’impatto dei bias sul proprio comportamento e le conseguenze che possono portare. Per questa ragione alcune aziende, analizzate e citate dagli autori dell’articolo, hanno organizzato podcast dove dipendenti e leader discutono di diversità, equità e inclusione.

All’interno di questi podcast sono intervenute persone che hanno clamorosamente sbagliato, lasciandosi “fregare” dai propri bias e trattando in modo discriminatorio colleghi che facevano parte di particolari generi o razze.

La vulnerabilità (per me uno speciale punto di forza di chi è davvero cool), descritta in questi esempi, ha aiutato i dipendenti a prendere maggiormente in esame i propri pregiudizi e a metterli in dubbio, dimostrando quanto sia importante mettere in pratica le azioni suggerite durante le attività di training.

In altri podcast, altri intervistati hanno condiviso la loro esperienza di successo dove l’azienda si è dimostrata libera da bias. Per esempio, sono intervenute donne che hanno fatto carriera con merito in reparti tradizionalmente maschili.

Questi esempi liberano molte persone dal pregiudizio di impossibilità che a volte si diffonde in alcune realtà (“figurati se posso diventare il responsabile, sono donna”, “figurati se possano affidare a una donna un ruolo così”).

Sarebbe bello che lo storytelling funzioni anche per abbattere gli stereotipi negativi che ancora oggi esistono nel mondo dei diversamente abili. Penso al potere mediatico di queste ultime paraolimpiadi. La squadra italiana ha conquistato il cuore delle persone per la forza e lo spirito di sacrificio dimostrato.

Vi chiedo di immaginare quanto l’educazione delle famiglie possa cambiare se ci fosse un’esposizione maggiore dei bimbi a modelli di leadership più equi, dove maschietti e femminucce possano preparare una cena in squadra, dividendosi i compiti, rompendo i ruoli sociali del passato.

Magari lasciare che bambini di entrambi i sessi giochino con le bambole può potenziare l’uso delle capacità empatiche. Il cambiamento diventa più veloce quando siamo esposti a esempi virtuosi di gestione della diversità.

4° azione: Monitorare le proprie interazioni manageriali

Le ricerche condotte hanno toccato in maniera particolare i gestori di persone. Dagli studi è venuto fuori che i corsi contro l’effetto dei bias devono far riflettere questi ruoli aziendali su come trascorrano il proprio tempo al lavoro e con chi.

Distribuiscono il tempo in modo equo tra tutti? Chi coinvolgono maggiormente nelle riunioni di brainstorming? Chi incontrano più facilmente quando si trovano ad avviare una conversazione spontanea?

Francesca Gino pone queste domande ai manager che partecipano ai suoi corsi sulla gestione dei pregiudizi inconsci. Chiede loro di rivedere i loro calendari per verificare con chi si siano incontrati nel mese precedente, chi abbiano invitato ai meeting, ripensando anche a chi abbiano fatto parlare maggiormente.

Dall’esperienza dei workshop, vengono fuori dei dati illuminanti:

  • La frequenza di partecipazione a meeting tra persone di colore e persone bianche è differente a favore dei bianchi.
  • La stessa frequenza a favore dei bianchi è stata riscontrata anche nella casistica degli incontri informali (momenti di scambio occasionale).
  • Anche nella distribuzione delle opportunità da offrire a collaboratori, i manager hanno fatto differenze, assegnandole in modo iniquo a favore degli uomini.

Se da un lato può venire il voltastomaco nel leggere queste conclusioni, dall’altro lato, porsi queste domande può far cambiare le cose. Rende le persone consapevoli dell’effetto delle proprie azioni e consente al manager di rompere gli schemi ricorrenti e redistribuire le risorse (tempo, premi, scatti di carriera) in modo maggiormente equo.

E tutto ciò può valere anche nel mondo personale, perché anche il tempo che dedichiamo alle persone nella nostra vita personale può essere indicativo del nostro modo di interpretare l’esistenza. Rendere il nostro mondo diverso può trasformarlo in un posto migliore.

Se, per caso, vi siete imbattuti nella serie TV “The Good Doctor” vi siete trovati davanti un esempio speciale di integrazione della diversità a vantaggio dell’intero sistema (ospedaliero). Anche se ci troviamo davanti a una finzione scenica, voglio credere che la diversità quando vista e integrata possa fare la differenza.

5° azione: tracciare i miglioramenti per rendere tutti responsabili

L’ultima azione che voglio citare è legata all’idea che per cambiare le cose serve investire seriamente e tenere traccia delle azioni e dei cambiamenti. Un po’ come quando si sceglie di andare in palestra. Serve pagare il semestre, stendere una scheda per determinare gli esercizi e, infine, tracciare gli andamenti.

Non può bastare un workshop su questo tema. O almeno chiunque ha sperimentato questa soluzione è rimasto deluso dei risultati. Lavorare sulla consapevolezza del meccanismo senza porre azioni, peggiora le cose.  Serve garantire continuità e monitoraggio perché l’azienda percepisca un ritorno sull’investimento.

Dalle ricerche, infatti, i migliori risultati sono stati raggiunti dalle aziende che sono state in grado di assegnare in modo continuo ogni inizio d’anno un budget per garantire la continuità delle iniziative per contrastare la presenza di bias inconsci.

Dare continuità su questo tema è strategico. Ma visto che il bias è qualcosa che riguarda ogni aspetto della nostra vita personale e professionale … Perché non inserire in ogni aula qualche momento riflessivo e qualche esercitazione che rompa i principali bias sul tema affrontato?

Io personalmente ci proverò 🙂

Cosa mi porto a casa

Qualche annetto fa mi sono stupito guardando questo TED di Carole Cadwaldr, una giornalista inglese, che trovate qui sotto:

https://www.ted.com/talks/carole_cadwalladr_facebook_s_role_in_brexit_and_the_threat_to_democracy/transcript?language=it)

Racconta il suo stupore quando scopre che il paesino da cui proviene è tra quelli che ha avuto quasi il 100% di voti favorevoli alla Brexit. Non vivendoci da un po’ di tempo, è voluta tornarci per comprendere le ragioni di una scelta così drastica.

Passando per le strade della città in taxi, ammira le tantissime opere sovvenzionate dall’Unione Europea, alcune realizzate, altre in realizzazione. Girovagando, a piedi, domanda i motivi del voto alle persone che incontra. La prima risposta che si trova davanti è: “l’Unione Europea non ha fatto nulla per noi”.

Molte persone si stupiscono quando Carole Cadwaldr racconta la provenienza dei fondi che hanno reso possibili molte delle opere nella città. Pochi erano a conoscenza dell’origine di quei fondi. Tutti avevano avuto la “soffiata” che l’Europa non stava facendo nulla per loro.

Come poteva essere successo?

Se guarderete il video scoprirete che anche Facebook (in modo negativo purtroppo 🙂 ) contribuisce alla formazione di bias sempre più duri a morire. Facebook mostra ciò che viene cliccato di più, ciò che guardiamo con maggiore intensità (è in grado di comprendere se una cosa ci interessa, calcolando i secondi di permanenza su un articolo).

Di per sé potrebbe sembrare utile, perché ci permette di ricevere sempre più informazioni coerenti con quanto ci piace. Ma nel tempo può essere molto pericoloso, perché ci fa leggere notizie che avallano il nostro punto di vista prevalente senza permetterci di scegliere con consapevolezza di consultare fonti diverse.

E così fu all’epoca della Brexit. Molti individui furono bombardati da messaggi (articoli, video, …) che parlavano di ciò che l’Unione Europa non aveva fatto per la città, sottolineando gli scellerati danni delle scelte politiche presenti e future.

Ogni volta che una persona ne vedeva uno, dopo poco ne arrivavano altri simili. Purtroppo, i video hanno cavalcato delle percezioni presenti in una parte della popolazione che ha scelto di ricondividere tutti i messaggi più volte, creando bias anche in persone che non avevano fino a quel momento preso posizione né a favore né contro la Brexit.

Peccato che molti di quei video postati e ripostati fossero falsi. Purtroppo erano stati davvero ben girati e sembravano da quel che raccontano davvero realistici. O forse i bias li hanno resi tali 🙂

Carole Cadwaldr ne volle vedere qualcuno, ma non riuscì perché furono messi per il solo tempo della campagna (e Facebook per il momento non sta collaborando alla ricerca della verità). Se pensiamo che dei video falsi, condivisi più volte, abbiano contribuito in modo sostanziale alla diffusione di un pensiero comune contro l’Unione Europea, possiamo davvero renderci conto di quanto sia importante lavorare sul cambiare questo meccanismo.

Magari, quella città avrebbe comunque scelto di uscire dall’Unione. Ma perché non farlo in modo consapevole e senza l’ausilio di mezzi di distrazione di massa?

Potreste domandarvi se sia contro facebook (o Google, o LinkedIn): No! È un ottimo strumento per comunicare e diffondere. Solo che come un bisturi, va saputo utilizzare, altrimenti il rischio di rimanere tagliati è molto alto. Serve prepararsi bene per evitare che lo strumento renda i nostri bias più attivi, altrimenti è meglio evitare di esserne contagiati.

Come fare?

Beh, se siete arrivati fin qui, avete sicuramente trovato diversi spunti. Potete riunirvi in gruppi fatti di persone eterogenee, abili, diversamente abili, bianchi, neri, … e discutere. Posso assicurarvi che funziona, perché lo sto sperimentando con la community Entusiasmabili.

Una community dove potete ascoltare testimonianze di punti di vista diversi fra loro, potete esercitarvi nel leggere notizie (verificate per quanto possibile) che rompono schemi ricorrenti (ovviamente al di là di farlo insieme agli Entusiasmabili cercare notizie nuove è il segreto per cambiare punti di vista e rompere la maggior parte dei pregiudizi e mettere in tilt l’algoritmo di Facebook).

Se ci pensate proprio in questo periodo abbiamo un tema che si presta benissimo per testare i nostri bias anche on line. Che tu sia provax o no vax prova a comprendere quali informazioni verificate hai a disposizione per poter mettere in dubbio le tue opinioni dominanti.

Poi, cerca di capire come cambia dentro di te la percezione di quel che credevi assolutamente vero e che ti impediva un dialogo sano con l’altro. È difficile parlare con qualcuno che non ha dubbi e che crede ciecamente in una idea.

Magari non ti farà cambiare idea sui vaccini, ma ti renderà maggiormente consapevole del meccanismo con cui sei arrivato a sviluppare le tue opinioni pur non avendo così tanti dati a disposizione e dovendo scegliere a chi dare fiducia.

Sono felice di aver dedicato questo articolo alla gestione dei bias, perché mi ha ulteriormente chiarito la forza del loro impatto su di noi. Pensiamo di essere liberi di scegliere, mentre inconsapevolmente siamo condizionati dalla fallacità della nostra percezione delle informazioni.

Da oggi in avanti, cercherò di mettere in pratica tutti i suggerimenti e di inserire un esercizio sulla rottura dei bias all’interno di ogni corso di formazione che erogherò. Anche perché la formazione in generale è sempre legata all’idea che per cambiare bisogna in qualche modo cambiare i nostri punti di vista.

Farlo insieme è meglio. Se vi va veniteci a trovare nella splendida community Entusiasmabili. Potete mandarmi feedback. Anche ricchi di opinioni opposte. Coinvolgetemi in meeting dove ci sia molta diversity. Sono qui per esercitarmi nel rompere i miei bias. Aiutatemi a farlo.

Fabio

PS: Una delle prossime azioni sarà leggere il libro “Noise” di Daniel Kahneman per entrare ancora di più all’interno di questi magici meccanismi che ci rendono la vita facile e difficile allo stesso tempo e provare a sintetizzarlo qui.